Cultura
La donna e la maternità nella letteratura: il sapore di un riscatto
La mentalità occidentale ha iniziato a scrivere parlando di ira, ma nel suo prosieguo ha trattato la figura femminile e il suo legame con i propri figli in modo del tutto particolare. Viaggio attraverso Virginia Woolf, Alda Merini, e Oriana Fallaci
Qualcuno ha detto che senza la donna la poesia non sarebbe mai nata. “Cantami, o Diva, del Pelide Achille / l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei”. La letteratura occidentale inizia non con la donna, non con l’amore, ma con uno dei sentimenti meno nobili che un uomo possa provare: l’ira.
Quando Virginia Woolf racconterà di aver cercato, letto e sottolineato vari testi per capire quale fosse stato il ruolo della donna nella letteratura e nella poesia, ammetterà di aver ricavato da quei libri soltanto “la faccia e la figura del professor Von X., occupato a scrivere la sua opera monumentale intitolata “L’inferiorità mentale, morale e fisica del sesso femminile” e che quei libri che aveva letto nel tentativo di imparare qualcosa sulle donne “erano stati scritti alla luce rossa dell’emozione e non alla luce bianca della verità”.
Per secoli uomini arrabbiati hanno scritto colpendo il foglio su cui scarabocchiavano, sminuendo di fatto l’essere donna e l’essere madre, cose che non devono necessariamente coincidere.
Oggi, nel giorno in cui convenzionalmente si festeggia l’essere madre, vogliamo raccontare la donna e la maternità in un modo diverso. “La maternità è una sofferenza”, scrive Alda Merini, “una gioia molto sofferta. Da un amante ci si può staccare ma da un figlio non ci riesci”. Nei suoi versi si legge di un distacco sofferto, mai ricucito. Una maternità negata.
A BARBARA
La vita è grama e deludente assai…
Ho una placida figlia
Con gli occhi azzurri e i capelli d’oro
Che mi sta, cuore mio, sempre lontana,
e ha le mani fanciulle
e il volto bello pieno di ironia
e mi vuole tanto bene
come soltanto se ne vuole a un Dio;
questa fanciulla bella che nei liti
remoti è dell’Italia
a me pensa talvolta e mi sorride
unica stella dentro la tempesta.
Oriana Fallaci, nel celebre incipit di “Lettera a un bambino mai nato”, ci parla del dilemma di dare o negare la vita. “Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, si è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata. Mi si è fermato il cuore. E quando ho ripreso a battere con tonfi sordi cannonate di sbalordimento mi sono accorta di precipitare in un pozzo dove tutto era incerto e terrorizzante. Ora eccomi qui, chiusa a chiave dentro una paura che mi bagna il volto, i capelli, i pensieri. E in essa mi perdo. Cerca di capire: non è paura degli altri. Io non mi curo degli altri. Non è paura di Dio. io non credo in Dio. Non è paura del dolore. io non temo il dolore. È paura di te, del caso che ti ha strappato al nulla, per agganciarti al mio ventre”.