Cinema
Once Upon A Time In… Hollywood – Recensione No Spoiler
Viaggio attraverso l’ultimo lavoro di Quentin Tarantino
Once Upon A Time in Hollywood, o anche il nostrano “C’era una volta a Hollywood..”, La Mecca del Cinema, dove l’attore Rick Dalton cercava la svolta della propria carriera. Ad accompagnarlo sul set e ovunque avesse bisogno, Cliff Booth, suo stantman e tutto fare; da autista a riparatore di antenne, passando per motivatore, nonché amico fidato. Il loro futuro non si poteva certo definire luccicante come le strade di una Los Angeles datata 1969. Quello era il tempo dei western, quelli americani e quelli italiani, quelli sia di Serie A che di Serie B, quelli che inondavano le sale cinematografiche e le televisioni.
Ma era anche il tempo delle celebrità e del divismo, nato proprio nel quartiere più famoso della California, Hollywood. E tanto tempo fa, nel bosco di agrifogli, di diva ce n’era una chiamata Sharon Tate, compagna di Roman Polanski, regista polacco ancora in attività. Solo poco tempo prima il naturalizzato francese veniva consacrato a livello mondiale col film Rosemary’s Baby. Una delle tante pellicole citate in questa favola diretta da Quentin Tarantino e uscita ieri nelle sale italiane.
Once Upon A Time In… Hollywood – Recensione della favola di Tarantino
Once Upon A Time In… Hollywood è il nono film di Quentin Tarantino e possiamo assicurarvi fin da subito che è il suo più emblematico lavoro. Le tante peculiarità che in questi quasi trent’anni abbiamo amato e criticato del regista americano le ritroviamo anche in questo suo ultimo elaborato, così come tanti altri suoi elementi caratterizzanti sono assenti. Perché Tarantino con questa favola si ripiega sulla storia del cinema e sulla sua personale carriera cinematografica.
Come già detto siamo nel bello della Hollywood nel 1969, in alcune date precise di febbraio e agosto, date significative per fatti realmente accaduti. Ma siccome parliamo di Tarantino è bene rammentarvi la dedizione di questo regista nel gettarsi nel surreale, centrifugando il tempo e lo spazio dando vita a una forma artistica, ancora una volta, straordinariamente nuova e originale. Se la storia ci dice che Charles Manson è stato mandante dell’eccidio di Cielo Drive, Tarantino non lo fa. O meglio, lo fa ma in un modo tutto suo, come sempre d’altronde.
L’amore per il cinema di Tarantino è sempre più lampante
Perché per la prima volta Tarantino si lascia andare al sentimento e al lieto fine, una vera e propria favola che solo un po’ di tempo dopo aver lasciato la sala troverà un senso nella vostra testa, quando poi finalmente capirete il senso del titolo: C’era una volta, appunto. Ma Tarantino, come il cinema, punta all’eternità. Ed eccoci dinanzi a un’opera che cita continuamente film, programmi televisivi, attori, case di produzione. Ma sia di Serie A che di Serie B. Perché Quentin non ha mai nascosto il suo amore per il cinema a 360 gradi, anche, appunto, per quello che passa un po’ più in sordina.
È proprio il lavoratore nell’ombra che protagonista non è ma è come se lo fosse. Brad Pitt è straordinario nell’interpretare Cliff Booth. Affascinante, spavaldo, probabilmente moglicida. Sono le sue azioni a permettere a Rick Dalton di tenere vive le loro carriere, sarà il suo “sacrificio” a permettere al lieto fine di Tarantino assumere quella malinconica melodia. Il suo lavoro, quello degli stuntman, bistrattato e dimenticato dai più, ma un ingrediente fondamentale nella ricetta del cinema. Un ingrediente che un mai sazio Tarantino non poteva ignorare. Grazie a una straordinaria performance di un Brad Pitt completamente ristabilito in piena forma (a breve lo ritroveremo nelle sale con Ad Astra) possiamo gustarci il personaggio più importante della pellicola, tanto decisivo quanto, anche tristemente, velato.
Cast stellare, spiccano Di Caprio e Pitt da Oscar
A prendersi la scena e i riflettori è il ben più grossolano Leonardo Di Caprio. Dopo la vittoria – tanto agognata – del Premio Oscar (Miglior Attore Protagonista in Revenant di Innaritu), lo riapprezziamo e torniamo a chiederci come mai di Oscar ne abbia vinto solo uno nella sua carriera. Rick Dalton, attore fittizio da lui interpretato, invece, non è un attore da premi e riconoscimenti esorbitanti. Eppure un po’ di talento ce l’ha, ma probabilmente non sa neppure lui come tirarlo fuori, probabilmente serve un po’ di innocenza infantile e amore incondizionato per il proprio lavoro, e dunque il cinema.
Perché Rick Dalton non vuole finire relegato ad antagonista eclissato, non vuole essere il villain di turno di altre celebrità hollywoodiane. No, lui a Hollywood ci abita e ne va fiero, non vuole andare a fare film in Italia perché, come dice lui, “Gli spaghetti western non piacciono a nessuno”, una frase che oggi ci fa tanto ridere. La crisi artistica dell’attore è un misto citazionistico e omaggiante a Marcello Mastroianni in 8 e ½ ma anche al più recente Micheal Keaton in Birdman. Vite nel mondo del cinema vittime dell’imprevedibilità, tormentate dalla paura che possa finire tutto in fumo come le tante sigarette sempre presenti nelle pellicole tarantiniane.
Meno minutaggio per Margot Robbie nei panni dell’attrice vissuta realmente Sharon Tate, il cui fato non vogliamo spoilerarvi ma è bene conosciate prima di andare a visionare la pellicola. Il sabato sera, così come la domenica pomeriggio, è diverso per lei rispetto ai sopracitati, se Di Caprio passa la sera ripetendo la parte mentre Brad Pitt si gode un po’ di tv col suo cane, la consorte del regista Polanski si lascia andare alle feste, conosce gente, riceve apprezzamenti, gode comodamente sulla poltrona di un cinema guardando le sue stesse perfomance attoriali, crogiolandosi nella sua bellezza e nella sua fama.
Camei dal mondo del cinema e dal mondo di Tarantino
Nonostante i due (più uno) capisaldi protagonisti, Once Upon A Time In Hollywood vanta un cast corale dalle qualità ineguagliabili. Piccole comparse ma dettagli aggiunti che regalano chicche e ulteriori omaggi alla storia del cinema. Dakota Fanning è Squeaky, Bruce Dern appare per la terza volta consecutivamente in un film di Tarantino, stavolta nei panni di una delle vittime della Family Manson. Poi Damian Lawis in una sola scena come Steve McQueen (noto per La Grande Fuga), passando per Al Pacino nei panni di un produttore tutto carisma e mitragliette, un Padrino e uno Scarface per sempre.
Menzione postuma per la figlia della musa di Tarantino, se il regista americano ci ha fatto conoscere Uma Thurman (Kill Bill e prima Pulp Fiction), la serie televisiva prodotta da Netflix, Stranger Things, ci ha sbalorditi con Maya Hawke (qui con una piccola parte nell’ultimo atto), bella e promettente proprio come Tarantino ci presentò la madre tempo fa.
Insomma, Tarantino farcisce la sua favola Once Upon a Time in Hollywood con le storie del cinema americano e non solo, con storie di produzioni realmente esistite e altre inventate per l’occasione, altre rielaborate, trasformate, citate, omaggiate, parodiate. Once Upon A Time In Hollywood è una favola originale che potrebbe decretare la conclusione della carriera alla regia di Quentin Tarantino, una regia come non mai oculata e meticolosa, degna di una candidatura agli Awards e arricchita da fotografia e colonna sonora come sempre graffianti e coinvolgenti. Ancor più da elogiare la scenografia, perché ci sembra di essere davvero a Hollywood, in quei ranch, in quelle ville, in quelle feste in piscina. Il tutto tra le luci dell’industria cinematografica che illumina l’oscurità di crimini e violenza.
Violenza e lieto fine si alternano nel finale
Una violenza che quasi tarda a farsi vedere in Once Upon A Time In Hollywood, ma che quando finalmente scuote la sala, lo fa al solito modo: alla Tarantino. Il film racchiude tutto di Tarantino eppure è probabilmente il meno Tarantiniano di sempre. Vi piacerà, soprattutto se conoscete un po’ la storia di Hollywood degli anni sessanta, altrimenti, se visto in linea superficiale, potrebbe annoiarvi e il finale persino lasciarvi insoddisfatti. Il miscuglio tra realtà e finzione diventa essenza di questo film, un po’ come accaduto con Bastardi Senza Gloria in cui Tarantino offre la sua visione, cruda ed esplosiva, qui più romantica ma senza rinunciare a un buon lanciafiamme.
Del finale, ne siamo sicuri, se ne parlerà per molto tempo. Ricco di molteplici interpretazioni e dubbi legittimi, Tarantino conclude la sua favola col lieto fine, con una principessa salvata dal cattivo, con un eroe che completa il proprio cammino superando un cancello, grazie a un aiutante che col suo cane ha salvato la situazione. Il grande messaggio che probabilmente Tarantino vuole darci è molto semplice: il cinema va oltre la fine, oltre la morte. La fine di una carriera da regista che non è la fine della ricerca dell’arte, la morte di una diva che non è la morte del suo personaggio.