Attualità
Sequestro di ostaggi in cambio di un riscatto: per gli Stati è legale pagare ai terroristi?
La questione legata all’attivista Silvia Romano ha scaldato il dibattito: nel sequestro di persona a scopo di estorsione, lo Stato può corrispondere una somma di denaro per permettere a una connazionale di essere liberata? Una questione complessa, che richiede un intervento legislativo
La notizia del rilascio dell’attivista Silvia Romano ha generato polemiche e scontri di ogni tipo. Ma al di là di ogni dibattito e considerazione sul caso concreto, cosa prevede il diritto interno e internazionale in caso di sequestro di persona a scopo di estorsione? Cosa è previsto laddove i sequestratori siano dei terroristi internazionali?
Sequestro di persona a scopo di estorsione: cosa si intende per privazione della libertà personale?
Il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione è disciplinato nel nostro ordinamento dall’art.630 del codice penale, secondo cui “chiunque sequestra una persona allo scopo di conseguire, per sé o per altri, un ingiusto profitto come prezzo della liberazione, è punito con la reclusione da venticinque a trenta anni”. Inoltre, è previsto un aggravamento della pena, qualora dal sequestro derivi la morte del sequestrato.
La disposizione in esame trova fondamento nella necessità di tutelare la libertà personale del singolo, mentre il comportamento doloso incriminato è costituito dal voler privare un soggetto della libertà per conseguirne un profitto, che è richiesto come prezzo per la liberazione della vittima.
Secondo la Cassazione penale (sentenza 1371/1987) non è richiesto l’uso di mezzi particolari, la privazione della libertà personale può essere provocata con l’uso di violenza fisica o di minaccia, o anche con l’inganno.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione (sentenza 14673/2019) ha chiarito come elemento fondante del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione sia la “mercificazione della persona umana”, in cui la persona viene resa merce di scambio, contro un prezzo.
Lo Stato può pagare il riscatto chiesto dai terroristi?
A seguito di un’escalation mondiale di atti di terrorismo, le Nazioni Unite hanno deciso di regolare la questione del finanziamento al terrorismo, mediante una Convenzione internazionale, adottata a New York il 9 dicembre 1999, vincolando ad oggi 186 Stati, inclusa l’Italia. La convenzione sottolinea la necessità in capo agli Stati di configurare il pagamento dei riscatti come un reato, così come stabilito dalla Convenzione internazionale contro il finanziamento del terrorismo.
Applicando la Convenzione ad un’ipotetica situazione di presa di ostaggi, se lo Stato contattato da un gruppo di terroristi che, a fronte del rilascio degli ostaggi, richiede una cospicua somma di denaro, acconsentendo all’istanza estorsiva, si troverebbe a commettere il reato stabilito dalla Convenzione internazionale per la repressione del finanziamento del terrorismo, perché ogni pagamento è considerato incentivo per futuri sequestri di persona. Infatti, seppur l’intento non sia quello di assicurare un finanziamento diretto al gruppo terroristico, lo Stato risulterebbe comunque responsabile di finanziare indirettamente altre attività di matrice terroristica.
Per quanto riguarda le misure di contrasto al finanziamento del terrorismo internazionale, la legislatura italiana si è modellata sugli atti emanati a livello internazionale. Con la legge 15 dicembre 2001 n. 438 è stata introdotta, nell’art. 270 bis del c.p., la fattispecie del finanziamento all’organizzazione terroristica, così da integrare i casi particolari che figurano il reato di associazione con finalità di terrorismo. Il contrasto a tali pratiche avviene tramite il così detto black listing e con le misure di congelamento.
Nonostante questo, l’Italia sembra manifestare un’incongruenza tra quanto dichiarato pubblicamente in molteplici sedi internazionali e nazionali – cioè il riconoscimento dell’illegittimità dell’accettazione delle istanze dei sequestratori – e il comportamento tenuto al manifestarsi della fattispecie. Si tratta di una questione complessa, che richiede un intervento legislativo, soprattutto se si considera che la nostra Costituzione salvaguardia la tutela della vita e dell’integrità fisica dei nostri cittadini e quindi anche dei nostri connazionali all’estero.